Iryna Soloshenko – medico di Maidan

“Un ragazzo è morto tra le mie braccia, noi con il dottore capivamo, che questa è la fine, ma lui respirava ancora. Noi cercavamo di non guardare i volti…”

Iryna, di 44 anni, è il direttore commerciale e lavora in una casa editrice. La sua prima istruzione è il dottore logopedista.

“Dopo il 4 anno di università ho ricevuto il diploma di infermiera e il tesserino militare. Ho deriso a lungo questo fatto della mia vita, perché non avrei mai pensato che mi potesse servire nella vita. Ed ecco questo inverno (inverno del 2014) mi è servito molto. Sono andata al Maidan dopo lo sgombero degli studenti, sono andata con la mia figlia più piccola di 7 anni. A dicembre e gennaio preparavo a casa i panini. Cioè prima di andare a lavoro avevo una routine di portare qualche genere alimentare, qualche mutanda e calzini, le creme… Non partecipavo come medico, perché ho visto che ce n’erano già tante brigate mobili. C’era già chi correva con i medicinali e distribuiva le gocce contro la renite.

Mentre come medico io sono qui dal 22 gennaio. Dal 18 al 20 febbraio, tutti quei 3 giorni ho trascorso a Maidan. Il 18 febbraio sono stata nell’Ukrainskyi Dim, con l’Autodifesa, dopodiché tremavo tutta. Mi dicevo: “ecco, adesso inizia un maccello”. C’era poca gente, pochi sono arrivati, così solo con le forze del Maidan, i ragazzi dell’autodifesa hanno deciso di andare su /Verso Verkhovna Rada/. E già dopo una mezz’ora è iniziato tutto. Qualcuno è arrivato dicendo che nella brigata mobile manca una persona. Io avevo addosso il pantalone e il camice azzurro, avevo le scarpe con tacco alto, ho indossato un cappotto e mi sono unita alla brigata. Dopo ho scambiato le scarpe con una ragazza.

La mattina del 20 febbraio, dopo aver mandato la figlia a scuola, sono corsa a Maidan. Nella cattedrale di San Michele io ho ricaricato la mia borsa, mentre i ragazzi per tutto il giorno lamentavano i dolori alla gola. Ho preso le caramelle per la gola, “Renni”, “Ketanov” in fiale /analgesico/, perché il 19 febbraio la maggioranza dei ragazzi avevano le contusioni varie. Uscendo da San Michele, mi sono resa conto che persino il suono è cambiato. Poi ho capito che erano le raffiche di mitra e ”l’autoambulanza”. Quando correvo vicino al “Kozatskyi” ho visto già i ragazzi senza vita  sdraiati per terra lì. Sono arrivata al palazzo dei sindacati e ho realizzato che solo ieri qui dappertutto c’erano i combattimenti. Vicino a me conducevano una colonna dei poliziotti delle truppe interne imprigionati, cioè si sono arresi in via Hrushevskoho. E ad un tratto ho sentito gridare: “medici, medici, al Zhovtnevyi servono i medici”, così sono corsa là. Mentre correvo ho incontrato un infermiere, mio conoscente, e noi insieme siamo entrati dentro. Stavamo andando al secondo piano, quando i “veterani afgani” ci hanno sorpassati e hanno detto: “fermi, ragazzi!... non abbiamo ancora controllato qui”. Ci siamo fermati e ci siamo nascosti dietro le colonne, e non ho capito se lì c’era “berkut”, oppure loro si sono barricati lì, o c’era semplicemente una porta chiusa?

Per tanti anni ho frequentato le lezioni di danza nel palazzo Zhovtnevyi. Là dove avevamo la nostra piccola sala delle prove, ho visto una sala operatoria e l’obitorio. Dopo siamo scesi lì, e abbiamo visto i ragazzi morti per terra. Di primo istinto ti lanci verso quei ragazzi, perché il volto non è ancora coperto, e poi il dottore dice, no no non serve più, è la fine. Vicino per terra c’era un ragazzo con il polmone forato. Gli abbiamo messo la flebo, lo abbiamo messo sulla barella, che era sovietica da paura, io ho capito, che fino alla porta in qualche modo posso resistere, ma non di più. Abbiamo raggiunto la porta e abbiamo chiamato i ragazzi, sei uomini hanno preso la barella mentre io ho preso la flebo, e in questo modo l’abbiamo portato avanti. All’angolo del palazzo di sindacati c’erano le prime 3 o 4 autoambulanze. Mentre correvamo, ho strappato quella flebo, perché io correvo più veloce dei ragazzi con la barella. Raggiungo l’ambulanza e vedo gli occhi terrorizzati dell’infermiere. Lui mi guarda e chiede che cosa ha il ragazzo, io gli rispondo che è ferito al polmone. E lui mi fa: “ se si tratta del polmone portatelo alla cattedrale di San Michele”. Io mi ero arrabbiata e con le parolacce gli spiego che il ragazzo ha il polmone forato, perciò lui deve aprire l’autoambulanza, lui obbedisce, noi carichiamo il ragazzo. Abbiamo fotografato la targa dell’ambulanza, e abbiamo chiesto nome e cognome del ragazzo, facevamo sempre così. Ora io voglio trovare tutti quanti, per poter incontrare questo nostro ragazzo. Voglio trovare anche quel infermiere.

Quando siamo tornati indietro, i ragazzi della sala operatoria al fianco si sono evacuati, per paura di un contrattacco, perché c’era troppo poca gente per difendersi. I ragazzi hanno portato fuori uno scudo e ci hanno coperto, così noi potevamo organizzare una specie di sala operatoria dietro una colonna. I feriti venivano portati dalla linea frontale qui da noi, perché alle donne non permettevano andare sulla linea del fuoco. Avevamo tantissime coperte, un chirurgo ha spiegato, che quando portano un ferito non bisogna spostarlo, ma prenderlo insieme alla coperta, questo alleggeriva il compito. E anche quando non c’è la barella un ferito può essere trasportato sulla coperta.

Non siamo riusciti a salvare 4 persone, vicino a noi c’era anche un prete, dopo ho visto le sue foto, vorrei trovare anche lui. Vorrei solo parlare, per rendermi conto di quello che è successo, parlare con quelle persone che erano lì con me.

Avevo anche una macchina fotografica, e sono contenta di essere riuscita a scattare qualche foto. Perché poi di notte io scrivevo tutto quello che ho vissuto, prima di tutto per non impazzire, e poi per poter realizzare che tutto ciò è accaduto sul serio.

Ho conosciuto un “sotnyk” /centurione/ dalla 14° Centuria, Vasyl Andrusiak. Lui si è ammalato e io gli portavo nel Ukrainskyi Dim  il tè e il kefir. Lui mi chiedeva continuamente: “come posso ringraziare?”, - io gli rispondevo “in qualche modo mi ringrazierà”. Quando l’ho incontrato nel palazzo Zhovtnevyi, allora al secondo piano, lui mi ha guardato e ha chiesto: “Ira, è Lei?”, - gli ho risposto: “Sì, vede, Lei mi ha già ringraziato”.

Abbiamo aiutato circa 10 feriti. Poi sono arrivati i ragazzi e ci hanno avvisati che c’è una grande probabilità di un contrattacco. Ci hanno chiesto di allontanare il punto medico, affinché la nostra presenza non frenasse il loro ritiro. Ci hanno chiesto di trovare giù un luogo sicuro e spostare là il nostro punto medico. Sono scesa giù e ho visto tra due colonne un bel posto, che si poteva anche coprire con una tenda. Così abbiamo organizzato un altro punto medico giù, vicino alle scale. Aspettavamo un contrattacco, ma alla fine non è successo nulla. L’ultima chiamata del dottore era verso le ore 14, in quel momento era uscito il sole. Ad un tratto dal palco ho sentito le richieste ai medici di andare su, lungo la via Instytutska. Io sono corsa lì, quando sono arrivata ho visto le barricate enormi dappertutto nella zona dell’uscita superiore della metropolitana. Tornando indietro, ho visto che nell’hotel Ukraina hanno aperto un enorme punto medico. Siamo entrati lì e abbiamo visto 6 sale operatorie. I chirurghi operavano fino la sera, ma non sono riusciti a salvare 12 uomini.

Il giorno dopo mi sono presentata a Maidan e dopo il discorso di Volodia Parasiuk sul palco, riguardo all’assalto nel caso se Yanukovych non dovesse dimettersi entro le 10 di mattina, ho capito che non dormirò neanche oggi. Noi giravamo con le nostre borse, cariche di fiale, quando i ragazzi ci hanno detto che la via è libera fino al palazzo di Verkhovna Rada. Hanno detto che non c’è nessun poliziotto lì. Era molto difficile comprendere, che tutto è finito.

Ora mi occupo dei ragazzi concreti, cerco di aiutare con le cure. Adesso una delle cose più importanti è di non abbandonare queste persone.

Un ragazzo è morto tra le mie braccia, noi con il dottore capivamo, che questa è la fine, ma lui respirava ancora. Noi cercavamo di non guardare i volti…

Intervista di Vika Yasyns’ka al medico di Maidan Iryna Soloshenko

Traduzione di Dana Kuchmash